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Martedì, 07 Dicembre 2010 00:00

Il Valore del paesaggio

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Costruire il valore: il paesaggio come risorsa - Quale valore d'uso e quale valore di scambio per il paesaggio - Progettare la valorizzazione del paesaggio? - Quali valori per il progetto di paesaggio? - Sensibilità (o coinvolgimento fisico) - Inerzia (o diacronia) - Sguardo da fuori (o riflessione identitaria) - Stupore (o serendipity) - Dissipazione  (o valore della perdita del valore)

Calvino dedica le Conferenze americane  "..ad alcuni valori o qualità o specificità (della letteratura) che (mi) stanno particolarmente a cuore, cercando di situarle nella prospettiva del nuovo millennio"[1] e parla poi, come sappiamo, di valori come la Leggerezza, la Rapidità, l'Esattezza, la Visibilità, la Molteplicità. Oggi, qui, vorremmo lavorare con lo stesso spirito: dare risalto alle specificità del paesaggio, esaminarne i risvolti teoretici ma anche operativi, che incidono nel comportamento quotidiano e sui nostri lavori. Del paesaggio vorremmo discutere il valore non tanto in assoluto quanto nelle qualità che emergono nel confronto con opportunità e scelte alternative, in quel bilancio logico o ideologico, intuitivo o considerato che comunque le pratiche quotidiane del territorio e del progetto ci obbligano ogni volta a sostenere. In esse il valore del paesaggio   (nel senso di importanza per il ruolo che assume) si delinea da sé, per la sua implicita commisurazione con gli altri bisogni, con le scelte, con i piaceri che gli sono "concorrenziali" nell'uso del territorio.
Infatti ormai il tema del paesaggio [2] non solo si impone all’attenzione di svariate discipline di indagine e di rappresentazione come "luogo" dell'identità e motore della mobilità di intere comunità, ma è diventato anche asse di riferimento per gran parte delle strategie di azione sul territorio: le prospettive della sostenibilità, della salvaguardia della diversità, del controllo delle trasformazioni si misurano sempre più non solo con gli aspetti “strutturali” socioeconomici  e dell’ecosistema ma anche con gli aspetti “culturali” e “politici” del paesaggio.
Nella fase in cui nella pianificazione territoriale ed urbana e nei programmi di intervento complesso la parola d’ordine è “(ri)qualificazione”, l’impostazione paesistica consente di affrontare con un’ottica e una comprensione nuova temi progettuali di grande urgenza, quali quelli emergenti dai luoghi critici dell’abbandono (la “montagna”, gli “entroterra”), dell’anomia (il “periurbano”, l’”infrastrutturale”), del degrado (lo “sfruttato”, il “dismesso”).
Tutto ciò comporta l'ingresso del tema del paesaggio nel mondo delle pratiche, dei progetti, delle trasformazioni guidate. E' anche per questo che improvvisamente il paesaggio diventa, anche per i tecnici ed i gestori del territorio, una risorsa oggetto di valutazione, del confronto operativo tra bilanci alternativi di vantaggi o di penalizzazioni: si esce dal sistema indiscutibile dei beni immateriali e incommensurabili e si entra in quello dei beni non indefinitamente disponibili ma limitati, deperienti, in qualche misura considerabili come risorse scarse.
Proviamo quindi ad assumere il valore del paesaggio come centro di riflessione: si tratta di un'angolatura che probabilmente permette di considerare con una luce diversa sia il concetto di paesaggio che quello di valore: ciascuno dei due termini porta l'altro ai margini del proprio significato consolidato, lo obbliga a misurarsi con elaborazioni teoriche inusitate e con pratiche, che scopriremo di uso comune ma che abbiamo troppo poco analizzato e discusso.
Possiamo forse definire il paesaggio stesso come risultato del processo di messa in valore culturale del territorio, come quel sistema di segni leggibili sul territorio e apprezzati da parte di ciascuno di noi singolarmente o come gruppo sociale o culturale (gli abitanti, gli amanti della natura, gli appassionati della montagna, del.….). Il territorio preesiste, in questa accezione, al paesaggio, il quale risulta come prodotto da una (s)elezione, da una valorizzazione culturale di parti rispetto ad un insieme indifferenziato.

Sembra avvenire cioè per il paesaggio nei confronti del territorio (e dell’ambiente) ciò che Wittgenstein afferma avvenire per l’arte nei confronti della natura:

“...l’arte ci mostra i prodigi della natura. Il suo fondamento è il concetto dei prodigi della natura. (Lo schiudersi di un fiore. Che cosa c’è di splendido in questo?). Si dice: ”Guarda come si schiude!” [3]..

Ma se il paesaggio come l'arte è un medium, una mano che indica ciò che vale la nostra attenzione e la nostra significazione, e se questo è il valore culturale del paesaggio, in primo luogo ci interessa capire se e come il valore culturale si tramuta in valore economico, quali passaggi più o meno controllati portano quel processo selettivo e di sottolineature, tutto soggettivo e simile a quello artistico, a definire un prodotto utilizzabile come risorsa, come bene da scambiare per ottenere altri beni, condivisibile con una comunità che in qualche misura ne fa non solo uso ma anche commercio.

In secondo luogo ci interessa entrare nel merito, non solo capire i meccanismi di traduzione del paesaggio da bene a risorsa, ma anche capire i criteri che ce lo hanno fatto preferire, le Qualità per dirla con Calvino, del paesaggio a cui teniamo.

 


[1] cfr. Calvino I., 1993, Lezioni americane, Mondadori, Milano, pg.1

[2] Utilizziamo qui il termine con i significati che abbiamo cercato di precisare nel Seminario del 1998 dedicato appunto al Senso del Paesaggio : cfr  gli atti appena pubblicati, editi da Ires, Torino, e presentati nel corso di questo seminario, ad es. ".. studiare, valorizzare, trasformare il paesaggio vuol dire esaminare e agire sia sugli aspetti culturali depositati nei luoghi che su quelli dello sguardo che sui luoghi si appunta. E mentre potremmo discutere quali luoghi hanno un deposito rilevante di valori culturali (distinguendoli ad esempio da altri luoghi più rilevanti dal punti di vista del deposito di valori ambientali naturali), è indiscutibile che si tratti solo di cultura quando esaminiamo il criterio con cui apprezziamo un luogo naturale o per il quale sfuggiamo da una desertificazione provocata da un disastro. Il doppio binario dell’accezione “culturale”, che investe in pieno il soggetto e in gran parte l’oggetto del paesaggio non è ormai più questione sottile di filosofia della conoscenza quanto materia di strategia politica, di direttiva amministrativa: sta ad esempio nella risoluzione del Consiglio d’Europa (n.53 del 1997), che definisce paesaggio “una porzione determinata di territorio quale è percepita dall’uomo, il cui aspetto risulta dall’azione di fattori umani e naturali e dalle loro interrelazioni”, e che applica a tale paesaggio l’impegno di “consacrarlo giuridicamente come bene comune, fondamento dell’identità culturale e locale delle popolazioni, componente essenziale della qualità della vita e espressione della ricchezza e della diversità del patrimonio culturale, ecologico sociale ed economico” (da relazione introduttiva di Castelnovi, pg.23)

[3] da Wittgenstein, A.(1977)Pensieri diversi, tr it. Adelphi, Milano 1980


Costruire il valore: il paesaggio come risorsa

 

In un'epoca in cui la prospettiva planetaria di una crisi delle risorse essenziali, quali l'energia o il cibo, è concreta e imminente, parlare di paesaggio come risorsa può sembrare una sorta di perversione intellettuale.
Invece chi si occupa di sviluppo locale individua sempre più spesso i nostri paesaggi come una delle poche risorse veramente adeguate ad una prospettiva di sostenibilità e di miglioramento complessivo della qualità della vita, sia dei "produttori" che dei "consumatori".
Con "nostri paesaggi" indico i paesaggi mediterranei, europei, e comunque del mondo antico, sedimenti di millenni di storie e di lavorio, veri giacimenti di tracce, ricchissimi di variazioni e di particolarità, che si offrono come microuniversi vivi al riconoscimento, all'esplorazione, alla memoria.[1]
Con "qualità della vita dei produttori del paesaggio" indico il benessere delle stirpi di coloro che hanno plasmato il paesaggio, che risiedono ancora nei luoghi e che del paesaggio sono i proprietari culturali, non solo avendo le competenze di insider nella conoscenza e nell'apprezzamento, ma avendo di fatto le chiavi per gestire l'evoluzione non traumatica del paesaggio nel nostro tempo. Le comunità abitanti dei nostri paesaggi hanno infatti quasi in ogni caso il pieno possesso degli strumenti di azione sul paesaggio non solo culturali ma anche patrimoniali (la proprietà dei fondi e delle città rimane quasi sempre locale) e amministrativi (ad esempio i Comuni in Europa sono diffusi capillarmente e corrispondono ancora alle più segmentate identità locali).
D'altra parte il paesaggio, come ogni risorsa che affonda le sue condizioni nelle relazioni immateriali e nel contesto culturale è sicuramente un bene sociale, difficilmente privatizzabile  nel suo versante materiale:  non si possiede il paesaggio alpino comprando una montagna o il Chianti e le Langhe comprando le singole tenuta vinicole, e solo il patriarca di Garcia Marquez poteva davvero,nel suo autunno iperbolico e nel suo disperato orizzonte sudamericano, vendere il mare.[2]
Ma nonostante questa apparente robustezza istituzionale e culturale, il paesaggio come risorsa non è al centro del modello di sviluppo sostenibile e viene sprecato o sottoutilizzato ormai da molti decenni.
Da una parte ragioni strutturali (l'urbanizzazione, la crisi dell'agricoltura, la rivoluzione dei consumi) hanno impoverito la capacità imprenditoriale e di difesa dell'identità di molte comunità periferiche, tenutarie di paesaggi straordinari. Dall'altra si è rivoluzionata la domanda di paesaggio sia esterna che interna: dall'esterno il turismo come pratica di elite cede al turismo come consumo di massa e questo trasforma non solo quantitativamente la domanda di paesaggio.
Ma soprattutto si trasforma la "domanda interna", quella degli insider, che si sdoppia: da una parte assume il paesaggio come materia prima per l'investimento sul futuro, dall'altra sente il paesaggio come testimonianza del passato. In una cultura che ritiene di avere tutto da fare il paesaggio è risorsa; in una cultura che ritiene di avere il mondo già fatto e doverlo solo abitare, lo sguardo si rivolge automaticamente al passato.
Nel primo caso lo sguardo è ingenuo, sincronico, la storia non esiste, i suoi segni sul territorio sono solo tracce a disposizione dell'imprenditività o trascurabili, nel secondo caso il futuro non esiste, non si riesce a immaginare altro se non ciò che viene suscitato dalla decifrazione dei segni che già ci sono.[3]
Purtroppo l'equilibrio tra i due atteggiamenti, unica strategia adatta ad un abitare dell'uomo occidentale in questi secoli, manca di strumenti operativi diffusi nella cultura: in essa si è invece consolidato un procedere a zig zag, di bolina (o come gli ubriachi) tra un atteggiamento e l'altro, come se un disciplinato procedere sulla via mediana, all'orientale, fosse impossibile.
E così si sbriciola ilvalore politico primario del paesaggio, quello di costituirsi, per coloro che ne hanno la proprietà culturale, comerisorsa per il progetto di futuro fondato sulla continuità con il passato.
Da una parte l'"abitante normale" ritiene il territorio uno strumento per vivere il proprio futuro e quindi modifica il paesaggio nella misura in cui gli serve e lo rappresenta hic et nunc: è a tutti gli effetti un colonizzatore del suo stesso territorio, un Robinson domestico.

Dall'altra parte c'è l'abitante riflessivo, quello che Gadamer riconosce come l'uomo occidentale:  quello che sa la sua storia, che si differenzia dagli altri tipi geoculturali perché il suo modello interpretativo si fonda sulla coscienza degli apriori storici su cui è fondato, a differenza di altri modelli di civiltà che non serbano coscienza del peso della storia sulle proprie strategie di comprensione e di interpretazione (e quindi di decisione). Costui assume dal paesaggio i valori del passato, guarda ad esso come ad un dato prezioso, che non sa riprodurre: il migliore dei mondi possibili non è questo ma è quello che gli è stato dato in eredità.
Caricaturando, se l'abitante riflessivo, conservatore del patrimonio, tende ad un atteggiamento depressivo verso il futuro, l'atteggiamento dell'abitante  "normale" tende alla baldanza, è euforico al limite del tracotante.
In questa situazione schizofrenica ci si trova ad operare ormai da anni, quando si cercano alleanze "naturali" nei piani e nei progetti di paesaggio:gli interlocutori locali sono quasi sempre partigiani dell'una o dell'altra fazione e la loro reciproca diffidenza e conflittualità impedisce spesso di rendere comprensibile e fruttuoso il tentativo di "racconto" del paesaggio che si propone.
Parliamo di "racconto" di paesaggio perché oramai abbiamo verificato che non si può iniziare un coinvolgimento se non con la partecipazione ad una spiegazione (nel senso di "dispiegamento") collettiva dei rapporti che il paesaggio sottende, quasi a dimostrare quanto sia necessario un processo di socializzazione per cominciare ad apprezzare, a dare valore al paesaggio nell'attivare una specie di presa di coscienza "politica" di quella immensa polis che sono ormai i nostri territori.

In molti casi prima ancora che all'economia dobbiamo quindi dare spazio ad una necessaria fase di valorizzazione culturale del paesaggio che, riconosciuto come mezzo per raccontare il territorio, può diventare mezzo per riconoscersi intorno ad un progetto: può diventare bandiera, punto di riferimento.
Solo dopo questa fase di aggregazione delle proprietà culturali è possibile assommare una congruente e sostenibile  proposta di utilizzo del paesaggio come risorsa, ipotizzando una realistica continuità comune della proposta, una maturazione del lavoro sul paesaggio a livello di collettivi.
Non solo il paesaggio riesce a diventare risorsa quando la comunità "proprietaria" ne è cosciente, ma è necessario anche un raccordo con la domanda esterna, con chi è interessato a trarre vantaggio o piacere dal "paesaggio di altri" (o di altro).
Si apre qui una delle diatribe classiche del tema del valore economico, che forse non è neppure importante  (re)suscitare: che cosa ha valore per chi, in un mercato imperfetto e con beni immateriali. Pur non volendo entrare nel gorgo di tali interrogativi, mi sembra comunque provocante una riflessione sul target più appropriato (sempre in un'ipotesi di sviluppo locale sostenibile) per questo "commercio" di paesaggi.
Se la risorsa può essere valorizzata da chi conosce i segni del passato nel paesaggio e ha la capacità (proprietà culturale) per metterli a frutto in un progetto di futuro, chi dall'esterno può essere davvero interessato a questo processo?
Già abbiamo ipotizzato un modello di comportamento e di desiderio che è quello di chi cerca "altro", di chi è spinto alla conquista, ma questa brama spinge semmai ai confini del mondo, nei paesaggi estremi, dove altri sono i modi di abitare o addirittura l'altro è l'inabitabile  [4] .
Sembra plausibile l'ipotesi che invece il target di riferimento per i nostri "paesaggi domestici" sia quello dell'"abitante di ritorno", di un soggetto capace di leggere i segni di un paesaggio che in qualche modo sente suo, ma non è vittima della dialettica locale tra soggezione al passato e sua rimozione: quasi sempre si tratta di chi si è allontanato fisicamente o per avventura intellettuale, dai vincoli del proprio territorio, e che può ora leggere un paesaggio conosciuto con un sguardo distaccato. Questa condizione, rara e frutto solo di progetti personali sino a pochi anni fa, è ora più diffusa e ordinaria, legata al crescere della mobilità delle persone e della circolazione delle informazioni: l'abitare è sempre meno legato alla stazione, alla terra e alla sua cura e sempre più si configura come un intreccio di rapporti più o meno intimi e intensi con luoghi dislocati, favorevoli ad una coscienza che "guarda dall'esterno", se un "interno" è ancora riconoscibile.
Con un target di questo genere si configura finalmente una possibile sede del processo di valorizzazione: una capacità di giudizio che confronta, individua e sceglie tra diverse alternative: apprezza il paesaggio non come dato ma come fattore ricercato, oggetto del desiderio. Forse solo a questo punto, in un possibile incontro tra i progetti degli abitanti (di ritorno e non), il paesaggio può diventare risorsa appropriata con ridotti rischi di spreco (cioè di perdita di valore potenziale) o di inefficacia.

 


[1] Rispetto alla gravità dei temi mondiali dello sviluppo non si può trascurare il differente assetto della domanda complessiva nell'area europea, ricca e con margini di surplus tali da consentire ipotesi di investimento e di consumo anche sul tema del paesaggio: lo sviluppo locale delle aree marginali europee, e in primo luogo italiane, può contare ancora per qualche decennio sull'enorme differenziale di accumulazione e quindi di capacità di spesa, contenuto nelle grandi aree metropolitane.

[2] cfr.Garcia Marquez G. (1975) L'autunno del patriarca, Feltrinelli, Milano: ".. detta cessione comprendeva non soltanto le acque fisiche visibili dalla finestra della mia camera fino all'orizzonte ma anche tutto quanto si intende per mare nel senso più ampio , ossia la fauna e la flora propria di dette acque, il suo regime di venti, la velleità dei suoi millibar, tutto…." (pg.269)

[3] Anche i segni che già ci sono sfuggono alla nostra capacità di tenerne conto: da Guenon a Schama il lamento su questi sistemi di significazione perduti ci rammenta della crisi della nostra cultura prima ancora che del nostro territorio. Vedi per questo Bonesio L. (1993), La terra invisibile, Milano, Marcos e Marcos, pg.54 e seguenti

[4] cfr. Castelnovi P. (2000), Relazione  introduttiva a Il senso del paesaggio, Ires, Torino cit., pg. 25 e seg.


Quale valore d'uso e quale valore di scambio per il paesaggio

 

Ipotizziamo che il valore d'uso del paesaggio stia, come si è già accennato parlandone come risorsa, nella sua elaborazione culturale, nella sua capacità di suscitare senso di identità, di appartenenza ad un territorio, o viceversa di alterità rispetto ad esso e di conquista. Ipotizziamo che a questi sentimenti, "utili" per il benessere (personale e delle comunità), partecipino tutte le componenti assumibili sul piano estetico (il godimento della bellezza), sul piano scientifico (la conoscenza secondo paradigmi ordinati), sul piano politico (l'appartenenza del singolo o la proiezione "geografica" dell'identità di una comunità).
In valore d'uso il paesaggio si presenterebbe quindi come strumento di soddisfazione di esigenze culturali complesse, in generale relative al rapporto di un soggetto (singolo o collettivo) con il mondo: cioè potremmo confrontare i paesaggi  secondo un criterio utilitario, in base all'intensità dell'attaccamento, del radicamento di chi li abita o viceversa l'intensità della memoria o del desiderio di assaporamento e di ascolto di chi, gustandoli, se ne vuole appropriare. [1]
Continuando con il parallelo con le definizioni classiche, il valore assoluto che il paesaggio contiene non può che essere la consapevolezza dell'ecosistema e della sedimentazione storica del lavoro dell'uomo a quello associata. In valore assoluto il paesaggio si presenta quindi come strumento di comunicazione e di sapere, cioè possiamo confrontare i paesaggi secondo un criterio"assoluto" a seconda di quanto del loro patrimonio riescono a comunicare o offrono alla conoscenza.
Seguendo le teorie del valore, la risorsa "paesaggio" assumerebbe valore di scambio quando per essa si manifesta in qualche modo un mercato, cioè un rapporto riconoscibile e tra domanda e offerta.[2].. La dimensione di tale valore tuttavia sfugge ai parametri classici: ad esempio è difficile misurarlo sulla base del costo dei fattori necessari alla produzione. Infatti, anche se il paesaggio  come bene ha sicuramente a che fare con un lavoro accumulato (di massima evidenza nei nostri paesaggi antropizzati), per chi oggi lo apprezza si configura più come una materia prima, o al massimo come un bene patrimoniale, che non come il riconoscibile prodotto di un processo di lavorazione/valorizzazione.
Infatti, tra i fattori che rendono pregiato un paesaggio, emergono spesso quelle componenti naturali (il mare, la vetta, il fiume) che più dovrebbero essere trascurate in un normale mercato che apprezza il valore/lavoro accumulato nei prodotti.
Inoltre, come abbiamo visto, trattandosi di una risorsa immateriale e poco disponibile all'appropriazione privatistica, il paesaggio non si può monopolizzare né rendere un bene genericamente raro: non rimane che arrendersi ad una lettura marginalistica, ipotizzando che la misura del suo valore dipenda dalla disponibilità soggettiva di gruppi di utenti ad affrontare costi per goderlo (di viaggio, di permanenza, di riproduzione attraverso immagini trasportabili, di studio delle sue particolarità), preferendolo così ad altri  beni, o preferendo quel paesaggio ad altri.
Secondo questa lettura che permette di considerare solo la capacità di spesa per il paesaggio, si possono derivare solo, per differenza e per confronto con altre possibilità di spesa, degli apprezzamenti di quantità  (ovvero di gerarchia) di valori rispetto alla domanda, mentre poco o nulla si può prevedere da parte di chi è proprietario culturale del paesaggio, che costituisce in questo rapporto l'offerta.
In un mercato in cui sembra che le decisioni siano tutte in mano alla domanda, dobbiamo configurarne  le possibili tipologie, distinguendo in primo luogo tra quelle che utilizzano tangenzialmente il paesaggio come corredo rispetto ad altri consumi e quelle che sono direttamente orientate al paesaggio come centro della propria opzione.
Gran parte della mobilità per loisirs di questi anni rientra nel primo gruppo, poco o nulla essendo ricercato del paesaggio, come lo intendiamo qui , tra coloro che frequentano i villaggi turistici, i campi da sci o le movide sempre più prefabbricate dei paesi latini. Per costoro è evidente che la scelta della meta dipende solo in minima parte dalla presenza di caratteri differenziali dei luoghi e dalle proprietà culturali del paesaggio.
Al contrario il "turista di paesaggio" si può associare all'"abitante di ritorno" e allearsi con gli appassionati di settore delle risorse locali (della natura, dell'arte, dell'enogastronomia, degli usi e costumi) nel porre come meta i luoghi e come desiderio il sapere e il gusto dei luoghi. Si tratta di un target diffuso ma disperso, culturalmente vivo ma non facilmente aggregabile, non riconducibile , al contrario del target del turismo di massa, a bandiere ideologiche o a parole d'ordine, piuttosto potente e ricco ma difficile da individuare per farlo partecipare ad un'impresa trasformativa perché anonimo, spesso non localizzato, sempre volatile: tutte le caratteristiche magiche ed ostiche del capitale finanziario.   Questa imprendibilità della domanda si riflette immediatamente sulle condizioni di stabilità del valore: il valore di scambio del paesaggio sembra affidarsi ad una ipotesi progettuale, una speranza che la proposta che si va facendo sia gradita al "pubblico": un po' come dovrebbe essere per i film ai festival o le opere d'arte ai Salon di buona memoria.
Ma sappiamo che nella realtà la domanda, teoricamente individuale, frammentata e pronta ad ogni novità, ad ogni luogo, si organizza (o meglio viene organizzata) per tipologie, e queste per mode e modelli; sappiamo che in questi anni la tradizionale montagna"non tira più"mentre si sta lanciando in modo complesso e promettente il paesaggio storico della collina medioevale, riconosciamo in questi andamenti il mercato deformato del cinema (il western non va più e anche la fantascienza …) o dell'arte (dopo anni di trionfo l'astratto cede al nuovo figurativo…). Insomma riconosciamo anche per il paesaggio una sorta di eterodirezionalità delle categorie di comportamento e di gusto che incide pesantemente sul successo (e quindi sul valore di scambio secondo l'ipotesi marginalista) di un luogo, di una meta, piuttosto che di un altro.

 


[1] Cercando di stabilire una categoria di beni o di qualità indisponibili, Magnaghi distingue per il territorio tra "valore" e "risorsa", attribuendo al primo il carattere fondante lo "statuto dei luoghi", il senso di "patrimonio" che già altri (Choay ad esempio) avevano utilizzato per segnare l'eticità della conservazione, del non consumo di quelle "invarianti strutturali di lunga durata" che costituiscono lo "zoccolo duro" dell'identità. Alle "risorse" si riserva il significato di valore d'uso dei luoghi e della loro identità, uso che deve essere mantenuto tuttavia nei limiti, impedendosi il degrado e la distruzione degli aspetti patrimoniali. crt. Magnaghi A.(2000) Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, pg.81 e seg.. Va comunque sottolineato che ciò che è già discutibile per il territorio, è assolutamente insostenibile per il paesaggio il quale, essendo in primo luogo sistema di relazioni culturali e di significazioni vive con il territorio, non può di fatto essere contenuto nelle sue rivoluzioni sulla gerarchia dei valori (anche patrimoniali) e sul loro utilizzo in quanto risorse: di fatto è impossibile in un sistema sviluppato e democratico contenere il crescere di una domanda di paesaggio (ad esempio quella che ha generato il turismo invernale, o quella che sta cementificando le coste italiane): il contenimento si tenterà semmai rispetto agli esiti dell'offerta territoriale che questa domanda di paesaggio comporta: case, infrastrutture, sovraccarichi antropici (ma qui siamo nell'ambito della gestione del territorio: pratica economica e costruttiva e non culturale e valutativa).

[2] Nella sterminata letteratura sull'argomento "valore" ci riferiamo in generale a Osiatynski J. (1981), voce Valore/plusvalore e Utilità sulla Enciclopedia Einaudi.Torino


Progettare la valorizzazione del paesaggio?

 

 

Credo sia evidente che queste indicazioni, abbozzando un quadro di riferimenti ai termini dell'economia (risorsa, valore d'uso, valore di scambio) per un oggetto così disadatto ad un trattamento economico come il paesaggio, non hanno come fine un innovativo paradigma esplicativo ma piuttosto tentano un orientamento al progetto, alle pratiche di intervento sul territorio.   Infatti chi lavora sul, con, per il paesaggio incontra sempre più pressanti inviti a farsi carico dei requisiti economici: dalla fattibilità dei progetti previsti, all'incentivo (traducibile in denaro) alla mobilitazione degli abitanti, dalla dovuta sinergia tra aspetti paesistici del piano e programma di sviluppo socioeconomico, all'ipotesi di coordinamento con la programmazione di settore (agricola, turistica, infrastrutturale), anch'essa misurata sulle capacità di investimento, sulla fattibilità della spesa, sulla redditività  delle strategie.[1]
Va comunque mantenuta, e soprattutto nel progetto, la gerarchia di valori che si sono andati delineando per il paesaggio, a partire da quelli strutturali (i valori culturali) a quelli politici primari (la risorsa paesaggio per il progetto di futuro fondato sulla continuità con il passato), tenendo quelli economici al livello dei pur importanti valori strumentali, necessari alla riuscita di un progetto ma non motivanti le energie e la volontà di realizzarlo. In questi termini ogni modificazione del territorio dovrebbe essere orientata ad una valorizzazione del paesaggio, tenendo i criteri di sostenibilità e di compatibilità economica come strumenti di controllo della fattibilità e non di determinazione degli obbiettivi.
Al di là delle raccomandazioni ottative sulla filosofia del Progetto in generale, dobbiamo porci il problema se esista e quali caratteristiche operative deve avere un progetto  direttamente orientato alla valorizzazione di uno specifico sistema di paesaggi.
Sino ad ora il tema è stato affrontato qua e là, sempre sperimentalmente, solo talvolta con il duplice obbiettivo di aumentare la leggibilità del patrimonio e di migliorare la qualità della vita degli abitanti ( o dei produttori) del paesaggio. In ogni caso comunque si è lavorato a partire dall'offerta di paesaggio e non si è mai affrontato il problema centrale: come si può attivare un progetto per "far rendere" un paesaggio di fronte ad un target che abbiamo visto essere complesso, imprendibile e contemporaneamente definito e insostituibile (visto che ogni altro tipo di domanda produce  quasi certamente una  degenerazione della risorsa).
Tra gli strumenti del Progetto di paesaggio distinguiamo, solo per comodità, tra Piano (nel senso di intervento generale, organizzativo, incidente sull'assetto fisico solo indirettamente e normativamente) e Progetto (nel senso di intervento circoscritto, trasformativo o comunque incidente sull'assetto fisico).
Sicuramente non siamo aiutati ma anzi troviamo una resistenza nella nostra cultura stessa del Piano, che non concepisce neppure lontanamente i valori contenuti in programmi non ordinati: il Piano è ordinativo per definizione. Semmai oggi le differenze tra diversi atteggiamenti di Piano stanno nel senso del futuro: distinguendoli alla grossa tra patrimoniale, cioè che dà continuità a ciò che ci è stato consegnato o imprenditoriale, cioè che mette a frutto le risorse.
La logica del Piano imprenditoriale tiene al paesaggio solo come ospite degli impatti, e ciò è esattamente agli antipodi del nostro interesse per il tema. D'altra parte è evidente che oggi il senso patrimoniale del paesaggio è destinato ad essere perdente a meno che non sia direttamente coinvolto un soggetto capace di dare valore al patrimonio: ogni Piano che assegna la dominanza delle strategie ad una tutela dei valori patrimoniali senza individuare chi remunera tale atteggiamento è costretto all'autoritarismo e, in tempi di democrazia, alla mancanza di appoggio (sia da parte dei fruitori che degli abitanti) e alla progressiva erosione, del piano e del patrimonio stesso.
Il Progetto ha dalla sua alcuni vantaggi (entra immediatamente a far parte del paesaggio fisico, si segnala e racconta le proprie intenzioni, se ne può discutere e si può confrontare con altro), ma ha difetti impliciti difficili da rimediare: è narciso e simula sempre non un inserimento nel paesaggio ma un processo di polarizzazione  egocentrica, che fortunatamente quasi mai avviene.  Inoltre quasi mai si tiene conto che nel nostro tempo la trasformazione fisica ha un ruolo minore in termini di innovazione, rispetto alla potenza che sta nei cambiamenti del modo di guardare: e qui il Progetto è scoperto, privo di strumenti e di capacità operative: subisce le mode e rincorre i comportamenti sociali piuttosto che anticiparli [2]
In realtà per lo sviluppo locale sembrano inefficienti i Piani che conosciamo e inefficaci i Progetti [3], tenendo conto comunque che nessuno ha posto il Paesaggio al centro del tema strategico, considerato un argomento complementare, strumentale alla valorizzazione del patrimonio per il Piano, riferimento per gli impatti e talvolta suggeritore di situazioni contestuali per i Progetti.
Oltre al Piano e al Progetto stanno delineandosi altri strumenti di azione complessa, che in Italia si sperimentano sotto forma di Programmi di riqualificazione o di Progetti pilota. La loro efficacia è ancora tutta da verificare, ma teoricamente sembrano ben attagliarsi alle esigenze del Progetto di paesaggio, se non altro perché si pone al centro la necessità di un coinvolgimento diretto di numerosi attori imprenditoriali, diversificati per motivazioni e potenza culturale, economica e politica, che la fattibilità non solo economica ma anche sociale e culturale è posta tra i valori primari, e soprattutto che la trasformazione che si avvia è considerata a priori (e purtroppo solo a parole) come una fase di un processo culturale, che deve incidere sui comportamenti dei fruitori prima e più strategicamente che non sull'assetto dei luoghi.
Il fatto che sino ad ora si siano sperimentati programmi prevalentemente in aree urbane e con fattibilità dominate dai fattori economici non deve scoraggiare, perché rimane intatto lo spazio per i "Fondamentali del progetto di paesaggio". Semmai così si incoraggia a trattare di paesaggio in ambito urbano, in condizioni di economicità per gli operatori che vi investono, trasferendo i valori del paesaggio nel contesto costruito: un ambito poco praticato da chi studia il paesaggio come un sottoprodotto dell'assetto ambientale ma che nell'800, in forma di investimento per l'immagine della città, è diventato nel giro di trent'anni il più importante fenomeno culturale e il più colossale affare del mondo moderno.
Ma si avvertono anche i primi segnali di una controtendenza: Programmi di riqualificazione che investono il territorio, che fanno della valorizzazione del paesaggio lo strumento principe per la qualificazione del territorio. Avviene ad esempio per molti dei PRUSST in approvazione in questi giorni, nei quali si avverte una curiosa differenza tra quelli delle città settentrionali, incentrati su ambiti urbani e sulla qualificazione di spazi degradati della città e quelli meridionali, coordinati quasi sempre da enti sovralocali (Province, Parchi, Comunità montane, addirittura Regioni), spesso articolati in progetti diffusi di sviluppo locale basati sul recupero di sistemi di luoghi, sul lancio di turismo soft, oltre che sui completamenti di infrastrutture e sui ripristini ambientali.[4]
Traducendo in aforisma le considerazioni sopra esposte: poco Piano e soprattutto non autoritario, Progetto solo per segnalare, Programmi per coinvolgere, ma sempre indirizzandosi al nuovo tipo di target, perché l'efficacia di un intervento può essere rilevante ma si dissipa, e diventa significativa solo se siamo abbastanza sicuri di avere centrato il senso diffuso e collettivo del paesaggio.
L'introduzione del paesaggio in funzione non solo di depositario del patrimonio ma anche di medium comunicativo aumenta il numero dei soggetti in gioco; si aggiungono non solo i proprietari culturali del paesaggio ma anche il target esterno che si ritiene possa collaborare alla riuscita del progetto. Dunque, per potenziare quegli aspetti che sono peculiari della pratica del paesaggio, soddisfacendo un bisogno di sensi positivi anche se oggi poco potenti, si deve tener conto di nuovi attori, e aumentando gli attori aumenta significativamente il grado di indeterminazione degli obbiettivi specifici:  è una bella virata, per chi si è formato alla certezza degli obbiettivi e crede che le difficoltà siano poste solo dalle inefficienze degli strumenti.
Infatti in un progetto che deve poggiarsi alle risorse locali, queste non possono che essere riscoperte sulla base della storia e dei suoi possessori che sono gli abitanti, ma attenzione: il caso in cui tutto ciò sia efficientemente operativo è un caso limite, negli altri casi è tutto sotto forma di traccia, di frammento, di potenzialità. Al ricercatore di paesaggio il compito di connettere quelle tracce in un quadro utile al target attivo e innovativo che sta disperso nel mondo.
Si tratta di progettare per dare spazio a quelle specificità del senso del paesaggio che lo rendono componente forte dell'universo culturale collettivo, a partire da quelle sopra delineate.Probabilmente bisogna lavorare con la gente più che non con le cose, o almeno con le cose a partire dalla gente, ma non è detto che queste persone siano gli abitanti (o almeno non nel senso di antagonisti ai turisti): serve allearsi con gli abitanti conoscitori del mondo, serve al progetto lo sguardo terzo.[5]

 


[1] Vedi ad esempio le recenti leggi sulle aree protette (426/98), sull'istituzione dei PRIU e dei  PRUSST (DM LLPP 8/10/98 o le disposizioni regionali per la redazione dei piani territoriali provinciali e dei progetti di settore in materia di agricoltura, acque, tutela ambientale, oltre che le raccomandazioni sull'integrazione delle politiche di intervento territoriali per il paesaggio , contenuta nella Risoluzione 53/97 del Consiglio d'Europa su paesaggi culturali.

[2] Fortunatamente stiamo superando il periodo "deterministico" in cui si leggevano nelle relazioni di progetto descrizioni più o meno dettagliate di ciò che gli utenti avrebbero fatto e pensato negli spazi, progettati per farli comportare e pensare proprio così, ma le nostre città sono piene di piazze vuote, di deserti emicicli gradinati per ospitare rappresentazioni teatrali, di percorsi attrezzati "alternativi" non frequentati.

[3] cfr. Magnaghi A., Il progetto locale, cit, in cui appare evidente la necessità di strumentazioni innovative

[4] cfr. il num.170 di Urbanistica informazioni (marzo aprile 2000), contenente numerose segnalazioni su programmi complessi e progetti d'area vasta

[5] Nelle più recenti esperienze che direttamente ho seguito (Piani dei Parchi dei Monti Sibillini, dei Colli Euganei, o programmi di valutazione della qualità urbana a Modena), è stato fondamentale il riconoscimento "laico" delle opzioni dei fruitori, siano abitanti che esterni, per definire gli ambiti di intervento (le cosidette unità di paesaggio), le connessioni tra funzionalità ed estetica (nella pratica quotidiana e nella scala di valori attivi, sui quali investire), la prevalenza degli effetti di insieme (di paesaggio) su quelli "di progetto" (di trasformazione con opere ).


Quali valori per il progetto di paesaggio?

 

Dunque se, con il vizio degli architetti, orientiamo tutti i valori al progetto, alla soggettiva tensione al miglioramento, verifichiamo che il progetto per il paesaggio, come ho sopra ipotizzato, assume aspetti particolari, quasi dialettici con l'ordinaria ansia di dominio della realtà che caratterizza il progetto occidentale moderno.

Questa diversità del progetto per il paesaggio non si riduce ad una modalità di approccio, ad un metodo di coinvolgimento degli attori: investe direttamente i contenuti del progetto, che devono essere coerenti con i valori/qualità del paesaggio: si tratta di proprietà specifiche da potenziare e da "far rendere" nei progetti di sviluppo locale.

E’ chiaro che anche qui mettiamo avanti i nostri soggettivi criteri di valore per dichiarare perché teniamo al paesaggio: ad esempio oggi seguiamo lo stesso criterio tendenzioso di Calvino per presentare “agli americani” i valori del suo progetto letterario: ne risultano (solo in forma di appunti, of course) una serie di intuizioni intorno a cinque termini, spiragli su nuove vaste praterie della conoscenza e del progetto, sui quali vorremmo lavorare.


Sensibilità (o coinvolgimento fisico)

 

L'incontestabile potere della percezione diretta, dell'apparire e dell'essere percepito costituisce forse il vantaggio più essenziale del paesaggio rispetto al territorio, della forma riconoscibile e memorizzabile dei luoghi e delle cose, rispetto ai contenuti interiori, mobili, sfuggenti (le relazioni ecologiche, le attività socioeconomiche, i saperi locali). Il paesaggio, rilevabile come forma sensibile e interpretata del territorio, è di fatto il mezzo di comunicazione con cui il territorio stesso entra in contatto con altro, con gli abitanti di altri luoghi, con il passato (e quindi anche con il futuro). La forma raccontabile del territorio è la base strutturale della politica, comunicazione e discussione sulla polis che si appoggia alla rappresentazione dei luoghi e delle patrie.
Ma la sensibilità del paesaggio (la sua potenza a “farsi sentire attraverso i sensi”, dando luogo in modo ricco e articolato ad immagini e memorie) è caratterizzata dalla sua eventualità, dalla soggettività dei tempi, dei modi e soprattutto della sensibilità del fruitore.
Si tratta di fare riferimento agli effetti complessi e irriproducibili di quell’atto seduttivo in cui si connettono le sensibilità passive del paesaggio e quelle attive di chi rivolge la propria attenzione ad esso, di considerare la fertilità in termini di coinvolgimento personale, di piacere soggettivo e di partecipazione diretta che l’evento di “immersione” nel paesaggio comporta, arricchendo di esperienze sensazionali la "secchezza" del rapporto semico, quello in cui ogni cosa si relaziona precisamente con il suo significato.
Esaltando la sensibilità del paesaggio si svela la pochezza dei paesaggi finti sia nella versione oggettuale, delle facciate di cartongesso di Disneyland, sia nella versione comportamentale, dei tour “Francia in quattro giorni”, sia ancora nella spinosa questione della  riproduzione del paesaggio in scala 1:1 che si promuove negli ecomusei e negli altri esperimenti divulgativi.[1]
Una parte significativa dell’arte figurativa, fotografica e cinematografica esalta gli esiti della sensibilità rispetto al paesaggio, mantenendo sempre aperto l’equivoco, tra la sensibilità personale dell’artista e la sensibilità (il “prodigio” di Wittgenstein) comunicativa del paesaggio. Sarebbe produttivo indagare su questo nodo lavorando su casi reali:

- si potrebbero apprezzare le sensibilità di ogni paesaggio riferendosi all'estensione della gamma di percezioni memorizzate, o all’intensità con cui in modo olistico certe 'unità di paesaggio" si imprimono nella memoria con segni forti, sintetici (o metonimici) di complessità morfologiche disordinate;

- si potrebbe riconoscere la forza di rappresentatività dei luoghi in cui è sensibile la testimonianza del patrimonio che contengono e studiarne le caratteristiche per  riprodurre la stessa sensibilità per altri paesaggi, figure di ambienti o di territori  ugualmente  importanti ma oggi meno "eloquenti", o meno" ascoltati";

- si potrebbero individuare i criteri del "restauro di sensibilità" di paesaggi deformati o impoveriti e di fruitori resi insensibili alla gamma degli stimoli paesistici, e reattivi solo alle percezioni violente e categoriche dei paesaggi preconfezionati (come ad esempio i parchi di divertimento e tutte le architetture urbane che ad essi si ispirano);

- si potrebbero considerare i caratteri primari della sensibilità, distinguendo ad esempio quelli che inducono il senso dell'abitare in un luogo da quelli che inducono una tensione vettoriale per la quale la propria appartenenza al paesaggio non è data. Per questo bisognerebbe studiare ad esempio i paesaggi che favoriscono il sentirsi dentro(il caso in cui il primo piano è omogeneo al secondo e allo sfondo) e in un rapporto di reciprocitàcon il paesaggio (l'osservante sa di essere paesaggio per chi lo osserva dal paesaggio che lui osserva); o viceversa studiare i paesaggi di montagna (ovvero dal mare in vista di terra), in cui domina la tensione a: si vuole andare in un luogo altro: la vetta, la terraferma, la città, l'oasi etc..

Forse si potrebbe tentare una lettura della sensibilità che i luoghi mostrano per il "dentro" o per la "meta" come immagini delle due tensioni: quelle dell'abitare, dell'identificarsi e quelle del conquistare, del possedere il paesaggio "altro".  La sensibilità del paesaggio "reciproco" toscano (che è simile a quello cinese in cui ha avuto successo il Tao) induce probabilmente una cultura del radicamento e dell'indifferenza locale; il paesaggio montano o marino (mediterraneo almeno) comportano una strategia della meta (l'Odissea, la Chanson de Roland, l'alpinismo romantico….).

 


[1] cfr. Raffestin C.(2000) De la domestication à la simulation du paysage in Il senso del paesaggio, cit.


Inerzia (o diacronia)

 

E' molto differente la durata dell'assetto del paesaggio in forme stabili (cioè non apprezzabilmente modificantisi) rispetto a quella dei comportamenti e delle memorie dei suoi fruitori, e ciò produce una presunzione di inerzia, di resistenza al cambiamento. Il paesaggio appare come uno strumento di testimonianza dello scorrere del tempo perché conserva le tracce materiali dei segni utilizzati, anche quando questi non lo sono più: in ciò il suo ruolo di vestale della permanenza, di Penelope che garantisce la continuità degli affetti a chi viene da un altro tempo (o più semplicemente ha modificato i termini di riferimento).

In realtà la durata oggettiva dei singoli componenti il paesaggio fisico è sottolineata quasi sempre dalla relativa stabilità delle loro sostituzioni: in agricoltura come in città alle piante si sostituiscono piante e alle case si sostituiscono case. Ove alle piante si sostituiscono case ciò viene registrato come modificazione del paesaggio solo quando viene raggiunta una certa soglia: la nostra memoria registra i cambiamenti per quanti e non in modo continuo.

E' proprio questo senso soggettivo della durata e del cambiamento che permette una sorta di volano (d'inerzia appunto) tra continuità del paesaggio materiale e continuità del paesaggio della memoria.

L'inerzia che ci interessa valorizzare fonda la sua forza sul fatto che i due depositi di senso (quello materiale dei luoghi e quello immateriale della memoria) sono integrati e ciascuno segna per l'altro lo scorrere del tempo e la necessità di resistere al suo degrado. Se la memoria continua si richiederà di rivitalizzare i luoghi che sono stati teatro di azioni desiderate e hanno perso il loro potere significante; se il patrimonio di testimonianze è ancora leggibile si cercherà di non perdere il senso dei linguaggi che lo sanno interpretare e in cui vorremmo continuare a riconoscerci come stirpe.

A differenza di ogni altra filosofia di intervento sul territorio e di progetto di architettura, che trascurano il fattore tempo o lo tengono come nemico, la valorizzazione del paesaggio assume il senso della diacronia come elemento caratterizzante, appoggiando ad esso sentimenti profondi come la nostalgia, l'identità, il senso di appartenenza al divenire delle generazioni.

Ne discende una tensione progettuale di grande fecondità perché, se sfugge alla tenaglia tra mito del futuro e mito del passato schematizzata poco sopra, permette di affrontare serenamente il grande nodo: quello della continuità del mondo oltre la morte dei singoli partecipanti.

Nella pratica quotidiana il valore della doppia inerzia del paesaggio si misura nella resistenza che si manifesta al cambiamento gratuito, immotivato, non condiviso. Purtroppo quasi sempre il paesaggio buono è quello perduto, cioè ci si accorge troppo tardi che era opportuno assecondare la resistenza dei luoghi e delle memorie, perché i processi di alterazione, come già accennato, sono percepiti per quanti e non nel loro quotidiano lavorio. Ma più impercettibile ancora è il cambiamento dello sguardo, la deriva della memoria: solo chi se ne fa un cruccio riesce a porre attenzione alle sollecitazioni esterne che modificano i propri giudizi, i propri sensi del paesaggio intorno. L'inerzia culturale in un sistema relativamente omeostatico come quello rurale, che ha prodotto i nostri paesaggi, è sottoposta oggi ad un logorio quotidiano di nuove informazioni, di altre immagini che ne diminuiscono radicalmente la capacità di attenzione e insomma la resistenza.

Per valorizzare operativamente l'inerzia del paesaggio potremmo, e già cerchiamo di farlo nei piani, potenziare il riconoscimento di sistemi di segni, sia nel loro aspetto reticolare sia in quanto configuranti unità di paesaggio, luoghi forti delle relazioni paesistiche in cui ritrovare organicamente le ragioni di una continuità (che in molti casi sono quelle della proiezione identitaria di una comunità).

Nel riconoscere un legame tra le parti il paesaggio assume una configurazione, un'identità definita che aggiunge capacità di resistenza al cambiamento o meglio aumenta le possibilità di accogliere il cambiamento senza perdere l'identità. E' il processo classico che avviene per le città, il cui paesaggio identitario, pur trasformandosi radicalmente nell'assetto fisico, è capace di resistere nella sua considerazione da parte dei cittadini molto più dei territori rurali, la cui perdita è irreversibilmente accoppiata, nei luoghi e nella memoria.


Sguardo da fuori (o riflessione identitaria)

 

Abbiamo dedicato gli ultimi anni a delineare il ruolo del paesaggio come risorsa culturale, come 'specchio' a disposizione per riflettere sia le Identità che le ansie di confronto con l'Altro.[1]

Ora c'è da aggiungere che forse, da tema di frontiera, l'identità diventa in questo periodo una battaglia di resistenza, di non arretramento, anche a fronte dell'accelerazione che recentemente ha subito un processo culturale molto generale: la perdita di continuità tra passato e futuro negli strumenti di valutazione strategica dei progetti personali e collettivi.

In termini "alti" questa sconnessione consegue alla crisi della Storia di cui parla ad esempio Touraine[2]; nella pratica quotidiana si manifesta nella perdita di fiducia negli strumenti di conoscenza e di giudizio tradizionali, fondati sulla continuità del sapere generazionale, e nella ricerca ingenua di una autonomia dei riferimenti: insomma in una sorta di ripudio dell'identità storica come valore.

Tra i pochi noccioli di resistenza a questa rotta delle nuove generazioni si riscontra il localismo, appoggiato spesso ad un uso banale dell'inerzia del paesaggio, come poco sopra delineato. Accede che, per qualche ingorgo della coscienza collettiva la Storia viene negata e la Geografia rimane viva, con i paesaggi a testimoniare, al di là di ogni ragionevole credibilità, di presunte identità locali.

D'altra parte sembra proprio che l'identità locale IN SE' non esista: esiste solo, mutuando il barbone di Treviri, PER SE', cioè quando in qualche modo si manifesta nella comunità locale una riflessione sul proprio stato e sulle chanches alternative di gestione (di potere) nel rapporto con il territorio. Ma perché la riflessione sia tale e non una generica dichiarazione di isolazionismo deve avere una forma di terzità, cioè potersi guardare dall'esterno mentre si è al lavoro sul territorio. Questo sguardo dall'esterno si può educare [3] nel confronto con gli altri territori, con regole generali, con modelli di comportamento che ci facciano sentire cittadini del mondo. Dotati di questo sguardo poggiamo gli occhi su casa nostra come degli stranieri e, finalmente, (anche se 'nemo propheta in patria'), possiamo percepire i segni dell'identità locale, valutare un'istanza di futuro in continuità con il senso del passato percepibile nel contesto, abitare in modo attivo in uno spazio-tempo già largamente condizionato e preesistente.[4]

Nel concreto si potrebbe lavorare didatticamente a potenziare lo sguardo dall'esterno sul paesaggio per rinvigorire un reale senso dell'identità:

- favorendo la fase di gestazione dei progetti, con la formazione di gruppi integrati di insider e outsider nella descrizione e discussione delle prospettive di intervento sul territorio e richiedendo costantemente la identificazione paesistica degli effetti degli interventi prospettati;

- favorendo l'incrocio dei giudizi, in cui le proposte di intervento di qualificazione paesistica vengono fatte dall'esterno e discusse da gruppi locali e viceversa la progettualità locale (dei comuni , degli operatori privati) si sottopone al giudizio di tecnici esterni.

Si tratta di procedure banali provate già più volte, che troppo spesso vengono costantemente accantonate a fronte di presunte urgenze degli interventi, mentre avrebbero esiti di qualche rilievo solo se continuate nel tempo e rinvigorite nella partecipazione (ad esempio rendendole obbligatorie come conferenze di servizi).

 


[1] cfr. Il senso del paesaggio, cit. gli interventi di Castelnovi e De Matteis

[2] cfr. Touraine A. (1993), Critica della modernità, tr.it. Il Saggiatore, Milano, 1997

[3] L'etimo del termine 'educazione' la dice lunga: condurre fuori! …("Portami al mare, fammi sognare e dimmi che non vuoi morire……"anche il poeta prescrive la dislocazione,  come una volta il medico per le malattie polmonari:….) Siamo favoriti in questi anni dal crescere di una prassi di mobilità e di conoscenza reticolare, che distribuisce il senso dell'abitare in luoghi discreti, separati, in cui è più facile una abitudine al confronto, allo sguardo non partigiano. A bilanciare questo ambiente favorevole ad una educazione al paesaggio "altro" sta l'abitudine a mescolare il virtuale al reale, che in questi anni minaccia di alterare il senso del paesaggio come ogni altro piacere della realtà.

[4] Sullo spazio-tempo condizionato e sulla nostra visione del mondo vedi una parte importante della psicologia, a partire da J.Piaget,(1926), La rappresentazione del mondo nel fanciullo, tr.it 1966 Torino, Boringhieri (soprattutto la parte III, sulla rappresentazione delle componenti naturali del territorio) e, in tutt'altra forma, Heidegger, e gli altri filosofi del '900 sul tempo (vedi ad es. C.Resta (1988), La misura della differenza, Milano, Guerini e ass.)


Stupore (o serendipity)

 

Quando il termine serendipity si è affacciato agli orizzonti delle nostre discipline [1] ci è parso significativo considerarlo una qualità del paesaggio più che della città in sé, proprio per la struttura comunicazionale complessa e interattiva che il paesaggio comporta, struttura che sembrava contenere nelle sue pieghe la possibilità dell'evento inaspettato, della trasfigurazione tra intenzioni e conseguenze che è propria della serendipity.

Oggi riteniamo che questa scintilla possa essere il sale del progetto di paesaggio, l'accensione di quella consapevolezza e di quella terzità che andiamo cercando per l'impresa di valorizzazione.

Forse, se a questo punto è ancora ammessa una breve parentesi, andrebbe studiato il mondo arabo che vede nel commercio l'unica occupazione degna dell'uomo colto, mentre alla pastorizia e all'agricoltura (per non parlare dell'artigianato) attendono solo i poveretti(che al massimo sono furbi o saggi ma non sapienti) e al potere stanno soggetti per i quali non ci si chiede perché siano in quelle condizioni(ed è quindi casuale che siano stolti, saggi o sapienti).

Nel commercio antico c'è il motore di ogni cultura, che è la rete attiva di rapporti interpersonali e della circolazione delle informazioni: attiva in quanto cresce da sola, con poca energia inserita dai suoi membri, alimentata dall'unica regola secondo la quale ciascuno aggiunge la sua curiosità e la sua  convenienza ad essere curiosato.

Ma non è solo questo (che di fatto diventa ben presto un processo specializzato del sapere, dato dalla scuola e dal confronto di sapienti, senza alcunchè di concreto da commerciare): nel commercio si trova quello straordinario processo creativo che è la formazione del valore. Il mercato ipnotizza le menti creative nel momento in cui si forma (quando poi è attivo gestisce le produzioni in modo tendenzialmente entropico), e nel mondo nomadico archetipico, senza luoghi e senza paesaggi, ogni mercato si forma sulla base dei prodotti nuovi che vengono portati: è esplorazione e testimonianza di "altro" da lì: è Marco Polo, è la nave di spezie di Magellano, è lo zingaro di Macondo con il pezzo di ghiaccio: è insomma l'ipotesi stupefacente che esistano luoghi altri.

Ma il valore non si forma solo portando nella storia la geografia, si forma anche suscitando lo stupore da ciò che di più normale ci circonda: è il processo creativo artistico, è l'invenzione, è la scoperta: tutto ciò anima e suscita sensi di potenza e di benessere diffuso che vanno molto al di là del semplice consumo degli oggetti o dall'altra parte, del semplice guadagno marginale ottenuto dalla loro distribuzione.

La formazione del valore diventa poi un'attività in sé, in un terzo versante che è metafisico e solo psicologico, mestiere attrattivo le menti più raffinate, ed è la suscitazione pura del valore nell'altro, la formazione della curiosità e dello stupore: è Ulisse alla corte di Nausicaa, è Sheerazade nella notte, è musica e danza.

E' insomma il saper raccontare (con la parola, il suono o il corpo) che c'è ciò che nessun altro ha visto, che per un gioco di prestigio quella persona o quel luogo che credevamo di conoscere è un altro. E il paesaggio? Il paesaggio, con il cuore umano è da sempre il deposito di tutti gli stupori, di tutte le creatività più immediate (le altre creatività, appoggiate alla riflessione scientifica percorrono linguaggi molto meno comunicativi attraverso i quali non si potranno mai connettere meraviglie personali a quelle collettive).

Nella Firenze di Luzi, nella Liguria di Montale e di Sbarbaro:[2] , solo per fare degli esempi di casa c'è la testimonianza della sconfinata potenzialità della meraviglia a spiegare e contemporaneamente valorizzare il paesaggio.

Il lavoro che si potrebbe condurre è certamente quello che Massimo Quaini  ed altri hanno già iniziato, di scavo nell'accumulo di descrizioni e di sguardi meravigliati e meraviglianti dei professionisti dello stupore. Ma accanto ad esso potremmo tentare, per paesaggi precisi, una ricognizione sull'incanto ordinario, sulla poesia diffusa nelle esperienze quotidiane, sui motivi segreti dei piaceri del paesaggio e sulle avventure paesistiche che ciascuno ha nel proprio curriculum di curioso o semplicemente di osservante.


Dissipazione  (o valore della perdita del valore)

 

La concezione giapponese dello spazio si distingue dalla incerta definizione occidentale per la chiarezza con cui costruisce il mondo dei volumi intorno al vuoto, all'intervallo: esiste un termine preciso per designare il posto di ciò che non c'è:ma.[3] Nella prevalenza dell'intervallo rispetto a ciò che lo delimita si concentra l'intero sguardo sul paesaggio del mondo orientale. Nel nostro paesaggio lo spazio come intervallo è subito come vuoto tra tutti gli oggetti pensati (ad esempio nel sistema costruito di una città, o nell'intorno di un'opera di architettura), è sicuramente il luogo della casualità, è quello che residua, che si da' naturalmente.

Il paesaggio materiale, che sicuramente trova il suo fondamento nello spazio in cui sono immersi gli oggetti, risulta essere quindi l'insieme dei residui, degli intervalli tra le cose progettate: lo spazio del non pensato.

Qui, dove si perde il valore del progetto "solido", sembra acquistare valore la "liquidità" del paesaggio, senza forma prevista: l'ospitare uno sguardo non preordinato è la sua caratteristica, il ritrovare forme inattese la sua performance.

D'altra parte, anche senza ricorrere al confronto giapponese, non c'è fotografo di paesaggio che non si vanti di inquadrare uno scorcio insolito, di scoprire un "dietro il paesaggio", di cogliere improvvise ed effimere geometrie.

Dunque il paesaggio ospita l'ordine progettato ma nell'ospitarlo lo erode, lo rende disponibile ad altro, lo smonta: c'è una curva simmetrica in questo percorso, che dal caos indifferenziato del paesaggio fa emergere una forma ordinata, progettata, significante la razionalità umana e che poi con un processo più o meno lungo, più o meno soggettivo, più o meno materiale la scompone, la fa ritornare allo stato di traccia, di componente disponibile ad altre forme.

Apprezzare questo processo, esistente e necessario con o senza il nostro consenso, vuol dire riconoscerne le forze, i ritmi, le fasi, vuol dire riconoscerne le dinamiche ineluttabili e assecondarle: scegliere se con il proprio intervento si vuole sottolineare il processo o segnalarsi con una forma distinta ma già disposta a farsi poi erodere e risciogliere in un insieme imprevedibile.

Schematizzando ci sono due modi di agire sul paesaggio per chi ne fa la materia prima della sua espressione:

- l'artista, che segnala ciò che sfugge alla percezione ottusa dei guardanti e quindi partecipa immediatamente alla valorizzazione degli interstizi, degli intervalli, portando la novità di uno stimolo a sensi nuovi, aggiungendo valore dal punto di vista interpretativo, del paradigma, della forma del paesaggio

- l'architetto che fa un oggetto, che si inserisce nel paesaggio come materia, assume la sua velocità di trasformazione (anche se nulla cambia dal punto di vista fisico si sottopone se non altro a quel processo di omologazione del percepito che viene con l'abitudine) e si dissipa, perdendo le intenzioni iniziali, e venendo riassorbite(o non percepite) a poco a poco le connotazioni di diversità e di autonomia.

In ogni caso il valore del paesaggio sta in ogni caso nell'essere il melting pot, la madre di tutte le percezioni, il deposito di tute le architetture.

Il tema è forse ancora più avvincente: possiamo trovare nella dissipazione congenita le ragioni nel trattamento diffidente della disciplina del paesaggio da parte delle altre discipline: c'è del rimosso, c'è un atteggiamento simile a quello che si è avuto con la psicoanalisi rispetto alla medicina, forse perché il paesaggio rappresenta il campo di dissipazione dei valori autonomi dell'ambiente introducendo la soggettività e viceversa diminuisce la potenza della soggettività del progetto.

Di fatto il paesaggio scioglie in sè:

- i valori del progetto (non rivaluta le intenzioni del progetto, anzi le erode);

- i valori della natura (nasconde o ottunde i valori della natura permettendone la simulazione o la sostituzione di parti "vere" con altre solo formalmente simili );

- i valori etici (si perde il senso di proprietà anche solo culturale di chi lo ha prodotto, si sta addirittura perdendo il valore positivo dell'insider e quindi il senso di patria, di luogo di cui si ha la proprietà culturale).

Questo è un fatto epocale per il concetto stesso di valore d'uso e di valore di scambio: l'uso del paesaggio è talmente indipendente dal produrlo che lo scambio non ha più una radice forte nel costo dei fattori produttivi: cioè non conta più a fatica nel produrlo sia culturalmente (quanto hai studiato per capirlo) sia oggettualmente (quanto hai faticato per farlo fisicamente). Questa fase forse è già avvenuta nell'arte e provoca comunque esiti socialmente (e quindi culturalmente) imprevedibili.

La progressiva erosione delle parti forti del nostro pensiero progettuale (la forza testimoniale del progetto, la natura come bene non fungibile, la legittima proprietà dei luoghi in base alla loro produzione o almeno al fatto di esserne abitanti) porta alla reazione ingenua (da grida manzoniane) del proclamare divieti e norme, che quasi mai possono essere messi in pratica perché con esse si vorrebbe incidere per lo più sull'evoluzione di fenomeni culturali, nel momento sfuggente in cui avvengono.

Semmai, con le norme e le tutele, si può incidere su chi specula sulla perdita di valori per distruggere i depositi di risorse, che devono essere mantenuti a disposizione di chi in futuro li sappia utilizzare.

Ma va anche considerata l'opzione del paesaggio "liberale", da  pensare dove non si ha paura della dissipazione dei segni, dove valorizzare significa agevolare il ritorno ad un reticolo di tracce, ad un fecondo set aside del progetto costruito, ad una sospensione delle bordate di energie riordinatrici. In quei casi la valorizzazione è l'assecondare la dissoluzione delle differenze, forse attraverso un progetto , ma che certamente deve darsi strumenti del tutto nuovi, da inventare, essendo noi sgomenti e completamente ingenui rispetto al progetto degli "intervalli".

E in fondo in fondo non abbiamo mai pensato a quanto sia profondamente etica l'epica del film western in cui l'eroe, che è stato in primo piano per tutto il film, si allontana, da solo, e si fa sempre più piccolo finche non si perde nello splendido e (av)vincente paesaggio che lo accoglie e lo scioglie, mentre si staglia sullo schermo la parola FINE?

 


[1] cfr. Bagnasco A., (1993) Fatti sociali formati nello spazio. Cinque lezioni di sociologia urbana, Angeli, Milano

[2] vedi ad esempio Luzi M. (1982) Trame, Rizzoli Milano (soprattutto le pagine su Firenze), oppure la lettura delle pagine di Montale e di Sbarbaro che Quaini ha portato al seminario del 2 3 2000 a Firenze, curato da Daniela Poli, in corso di pubblicazione)

[3] cfr. Berque A.(1982) Vivre l'espace au Japon, Presses universitaries de France Paris e

Fuccello F.(1996) Spazio e architettura in Giappone, Cadmo,Firenze

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